FRANCESCO LEONETTI

LA FRECCIA

 

Nelle pagine di quest’ultima raccolta poetica di Francesco Leonetti, il verso lungo si distende ad accogliere le tante sfaccettature della realtà contemporanea, di quelli che il poeta chiama con entusiasmo, in una delle sezioni, “multiversi”, accompagnando il titolo all’esortazione “Mai ci diventino identici i mondi!”.
Come sottolinea Pietro Cataldi nella sua breve ma densa introduzione al testo,  Leonetti si muove sulla scorta dello sperimentalismo di “Officina” (e quindi di Pagliarani, Volponi, Pasolini),  valorizzando nella scrittura le “relazioni discorsive”, il “momento argomentativo”, e attuando,  in coerenza con le precedenti raccolte, la contaminazione dei generi attraverso  la commistione di prosa e poesia. Allo scopo non tanto di dissacrare la tradizione poetica, quanto di “usare la lirica per una ridefinizione della dicibilità del mondo”.
Particolare attenzione meritano, in questo senso, i due testi – vera e propria dichiarazione d’intenti – che Leonetti pone a inizio raccolta e i cui titoli cortocircuitanti suonano quasi una provocazione: Imprecazione d’inizio (in versi baciati) e Scherno finale.
L’incedere sfacciatamente lirico dei versi d’apertura stride con la presenza di un lessico poco poetico, con la constatazione (declamata e molto volponiana) che il cielo cui il poeta indirizza lo sguardo è ormai  invaso dall’uomo: “Oh cielo pieno di monete, messaggi, influssi, e satelliti in viaggi./Oh pieno di velivoli rapaci che ci danno veloci le stragi…”
Un paesaggio tra Dante e le Mosche del capitale, in cui a scorrere sono appunto i flussi invisibili di quest’ultimo, una terra dove il senso è andato perduto e ci si chiede se l’utopia fosse “demenza”,  una realtà in cui si sconta lo scacco dei saperi umanistici, poiché “Solo per vendere ora si vive: lettere e arti sono retrive” e relegate ai margini, mentre si svolge intanto una perfida gara, una sporca guerra i cui obiettivi sono il denaro e il potere. Sono queste le premesse da cui scaturisce la scrittura di Leonetti, dubbiosa, interrogativa, poiché non può ignorare i cambiamenti, e allo stesso tempo per nulla rassegnata. Anzi, volta allo “studio degli eventi, a rigore, senza lagni sul niente…”
Richiamandosi al furore civile tipico del Dante che si scaglia contro la corruzione dei costumi fiorentini e italiani, all’iconografia della Commedia (“nessuno che regga una testa pendente”), a un lessico aspro e bassamente corporale, Leonetti tratteggia una infernale “Itaglia del Novanta”, nella quale “pare di rigirarsi ficcati sempre nella stessa fanga”: una degradazione sociale sovrastata di grida,  il corpo un sacco e il paesaggio merdaio, puzzo, codazzo, poltiglia, schizzi, bocche sporche. L’autore altro non è, allora, che un “microbo”: definizione che non ha valore di resa poiché, come scrive altrove, i microbi sono “minime creature” che lottano “contro la specie umana che uccide le nature”. Ma l’autore è anche Abele, uno dei tre eredi di una potente famiglia europea, amante della letteratura, che “al padre dice che il mondo non è verde  e anzi che è una merda” e che, nella guerra per il potere viene, senza troppa fatica, relegato in manicomio. Alla sua figura Leonetti accosta quella del poeta, richiamandosi ancora una volta, nel lessico e nelle immagini, a Dante: “Alcuni levano in alto i loro ringhi  e sputano sul piatto e anche sul dindi./Come noi stessi in fondo: è questa la speranza, il punto, la (persa) eguaglianza.”
Ed ecco quindi che il “poetastro”, con un ruolo che lo pone al margine, con sede a Milano, “provincia di Europa del sud”, cerca di restituirci in parole il suo sguardo errante e le sue riflessioni sulla realtà che lo circonda: quella di Milano, appunto, che, se da una parte è uno spersonalizzato insieme di banche centrali, macchine, flussi di monete e di informazioni, mani dei padroni di merci, dall’altra è anche una città di negozietti e case e cartelloni, la quinta di un teatro  “dove non si recita più nessuna parte decisiva”. E Leonetti, rimuginando il Montaigne che discorre dei presunti cannibali che abitano il Nuovo Mondo, ci propone istantanee di un islam multicolorato, di buddismo, di affaristi giapponesi, di Oceania e Guinea, intessendo un inno alla diversità e interrogandosi al tempo stesso sul valore, forse fallito, dell’eguaglianza: “Ma se al bianco mischiamo il nero, il giallo, il bruno o il vero (…) se ognuno è più diverso e e enuncia il proprio verso, / se il piede riprende il comando, ovunque da terrestre girando, / l’uomo non finirà. E sulla luna o su marte è trovabile già / non l’eden, l’abbondanza, ma il bene del deserto: l’eguaglianza”.
Diversità, Eguaglianza: due termini che fanno da filo rosso all’intera raccolta. Poiché “si è rotta la terra nel suo senso”, poiché si è perso il “centro” (altra parola che ricorre spesso. Un verso per tutti: “Non contano i vecchi mondi, che erano centrati e tondi”), lo sguardo dell’autore nomade si perde a tratti su “una vastità vuota ovunque e in essa la potente estensione di male”. Vuoto, vacuità, buco: sono le diverse declinazioni di una assenza di senso che Leonetti individua come ormai tipiche della società occidentale: “il vano insieme d’antenne , vetture, schermi, non dice un buco umano?”
Ma a questa desolante realtà non si arrende, nonostante l’insorgere del disincanto, la scomparsa di grandi ideali, l’ironico dubbio che persino lui stesso, se avesse meno anni, cederebbe agli inganni e alle finzioni del Consumismo. E, quasi un memento, accosta al testo sull’indomita vecchiezza del poeta quello su un cimitero di macchine: rottami la cui inutilità e abbandono costituiscono “la verità d’Occidente”.
L’apertura ai multiversi implica per l’autore anche il confronto con l’universo femminile, con “la strana di lei frequente diversità”. Parte del discorso politico è proprio in questo rammemorare l’importanza dell’eros, degli istinti, della natura, ignorati dalla cultura occidentale così come tramandata dalla “scuola infame”.  Ed è proprio la riflessione sulla condizione femminile all’interno della società islamica (“brutto è nell’arabo gioco che siano le donne senza nome proprio”) che evita all’autore un discorso ingenuamente entusiasta sulle culture altre, che lo spinge a riflettere e a considerare come, in quella cultura, anche le donne partecipino, loro malgrado, della generale perdita di senso: “Dell’esser donne non hanno il centro ma solo il buco e il ventre”. Non stupisce, quindi, che nei Versetti sui grandi testi compaiano, insieme a Gioacchino da Fiore, a Giordano Bruno, a Buonarroti, anche il Boccaccio che elogia la sensualità femminile nel “Decameron” o Casanova o Aretino. L’utopia, l’eros, lo sperimentalismo linguistico (una forma di lotta nel momento in cui “la lingua è a schemi come in produzione: si vuole che si parli così scemi”), una lotta condotta attraverso l’arte sfilano in questi versi, nome dopo nome: “Oh Doni grande moderno utopista chiaro degli italiani: / ai poeti un lavoro impone, e cioè ‘menar le mani’.
Ma attenzione: dieci sentenze lapidarie ci congedano e ci ricordano anche: “Chi critica l’occidente la polizia l’addenta”.